Ivano Legnini

«Trasparenza, fondi e qualità. E allora noi ricercatori italiani non saremmo costretti ad emigrare a Berlino o altrove»

Ivano Legnini, ricercatore italiano a Berlino, ci racconta la sua esperienza a Berlino e come l’Italia possa ancora farcela

«Purtroppo andare all’estero per i ricercatori italiani è un passaggio obbligato, quantomeno se si vuole fare ricerca ad alto livello. Dico purtroppo perché può essere un’esperienza entusiasmante (o a volte anche dolorosa), ma trovo ingiusto che per molti di noi sia l’unica chance di costruirci una carriera». A parlare così è Ivano Legnini, classe 1987, abruzzese cresciuto a Chieti, che dalla fine del 2016 ha deciso di fare di Berlino la sua casa. Il suo percorso professionale, ovvero la ragione principale per cui ora si trova in Germania, passa per una laurea in Genetica e Biologia Molecolare alla Sapienza di Roma. Seguita, nel 2016, da un dottorato di ricerca lavorando in un laboratorio di biologia molecolare guidato da Irene Bozzoni sempre presso l’ateneo capitolino. «Finita l’esperienza a Roma, mi sono preso del tempo per riposare la mente e dedicarmi alle mie passioni, la musica e il cinema, e nel frattempo ho lavorato per trasferirmi all’estero». Chiedergli le ragioni per cui ha lasciato l’Italia è una domanda retorica, ma obbligatoria: «La mia è un’opinione personale e priva di velleità corporativistiche: in Italia o si cambia o la ricerca muore definitivamente. E con lei un pezzo della nostra identità storica. Eppure basterebbero poche cose: fondi, fondi, fondi. E procedure di selezione cristalline. Ma queste, senza un aumento di un ordine di grandezza degli investimenti pubblici, non servono a niente».

Perché fare ricerca a Berlino e non in altre parti del mondo

«Durante i miei studi ho passato dei periodi all’estero: due mesi ad Harvard nel 2011 con una borsa Armenise e qualcosina in più al Max Delbrück Center a Berlino nel 2014, con una borsa EMBO. In quel periodo mi innamorai della città e avviai una bella collaborazione con Nikolaus Rajewsky, direttore del Berlin Institute for Medical Systems Biology (BIMSB). Un paio di anni dopo, durante una sua visita a Roma, facemmo una chiacchierata e gli dissi che mi sarebbe piaciuto entrare nel suo laboratorio. Lui ne fu felice e così ora mi trovo qui. Sono così passato dal caos di Roma a uno stile di vita più rilassato. Sensazioni come l’ansia di perdere l’autobus perché poi chissà se il prossimo passerà mai sono ormai un lontano ricordo nonostante molti tedeschi si lamentino molto del trasporto urbano a Berlino. Sembrerà banale, ma cose come la certezza della mobilità, la buona manutenzione di un appartamento preso in affitto, un welfare che ti permette di pensare al futuro serenamente possono cambiarti la vita. Non sarà mai come Roma, che immondizia o no per me resta la città più bella del mondo, ma se oggi ricevessi un’offerta di lavoro da un posto qualunque del mondo, sceglierei di restare qui. Questo mix di cultura e contro-cultura, divertimento, serenità, libertà non l’ho visto da nessun’altra parte».

Come le ricerche di Ivano Legnini potranno incidere sul nostro futuro

«A Roma mi sono occupato di varie cose: distrofia muscolare di Duchenne, rabdomiosarcoma e leucemie sempre con un occhio ai meccanismi molecolari e i fenomeni fisiologici alla base di queste malattie e dei tessuti che queste malattie interessano. Verso la fine del dottorato mi sono interessato agli RNA circolari, una classe di molecole di cui non si sapeva quasi nulla fino a qualche anno fa. Sono prodotti a migliaia nella maggior parte degli organismi viventi, e nell’uomo si trovano in grande quantità nel cervello. Mi appassionava l’idea che queste molecole fossero sempre state lì, in effetti da centinaia di milioni di anni, e noi ce ne fossimo accorti solo ora, senza di fatto capirne nulla. Ho contribuito a comprenderne la funzione, osservando innanzitutto che la loro assenza causava difetti in cellule coltivate in laboratorio, e in secondo luogo che queste molecole, almeno in principio, sono in grado di produrre proteine. Stando a Berlino mi sono spostato verso una disciplina leggermente diversa, la cosiddetta systems biology. In particolare indago la funzione dell’RNA nei neuroni, del perché alcune molecole di RNA vengano localizzate in strutture precise dei neuroni e quale sia il loro contributo all’attività neuronale, ma non solo. Una parte del mio lavoro è anche dedicata allo sviluppo di nuove tecnologie di sequenziamento e nuovi metodi per manipolare l’espressione genica».

Ricerca italiana vs ricerca tedesca: un confronto sugli investimenti

«Sono convinto che il problema principale della ricerca in Italia sia il capitale che i ricercatori hanno a disposizione. Il governo italiano ha di recente annunciato un aumento di 10 milioni per la ricerca nella legge di bilancio, come fosse una grande conquista. Per dare una idea grossolana, se invece di 10 milioni investissimo all’improvviso 10 miliardi, che è una cifra da capogiro, non arriveremmo comunque alla media europea di spesa in ricerca e sviluppo. Ovviamente a questa enorme differenza tra Italia e altri paesi contribuisce il privato quanto il pubblico. Parlando di pubblico: in Germania, un giovane ricercatore che voglia aprire il suo laboratorio può innanzitutto contare su una quota fissa di finanziamento che la maggior parte degli istituti di ricerca mette a disposizione, e in secondo luogo può partecipare a bandi pubblici di finanziamento a sportello, ovvero scrivi un progetto e dopo pochi mesi sai se te lo finanziano o meno. In Italia il principale canale di finanziamento del MIUR è il programma PRIN, che viene bandito senza un preciso criterio temporale e mette a disposizione somme totalmente inadeguate. L’ultimo PRIN ha un budget complessivo di meno di 400 milioni, a fronte ad esempio dei 3 miliardi messi a disposizione dalla sola DFG tedesca nello stesso anno, che è solo una delle fonti di finanziamento pubblico in Germania e che spende più o meno quella cifra ogni anno. E questa è soltanto una delle differenze. C’è anche un diffuso problema di mentalità. Le procedure di selezione del personale di ricerca rispondono spesso a logiche tutt’altro che meritocratiche. Tuttavia, questa non è solo una questione di dinamiche di potere nelle università, ma deriva anche dal primo problema, quello economico. Se un laboratorio si può permettere di assumere senza limitazioni, è normale che cerchi il miglior candidato possibile. Se tuttavia le risorse sono limitate e incerte, è comprensibile che cerchi di limitare i rischi e si investa su candidati interni, di cui già conosci le qualità e i difetti. Per non parlare del fatto che attrarre ricercatori dall’estero all’Italia, con gli stipendi e le condizioni di lavoro che vengono offerte, è un’impresa titanica».

C’è ancora uno spiraglio per la ricerca italiana

«Nonostante questo io sono convinto che si possa ancora competere con colossi come la Germania con un aumento sostanziale di spesa e un pizzico di cambio di mentalità.  Sono i numeri a dircelo: l’ultima grossa tornata di bandi europei ERC, i più prestigiosi per uno scienziato europeo, ha visto come ogni anno gli italiani tra i primissimi posti come vincitori, l’Italia come paese ospite almeno una decina di posti più giù. In altre parole, il nostro sistema produce eccellenti scienziati ma non altrettanto eccellenti centri di ricerca. C’è però un altro aspetto della questione, secondo me molto importante. Il mondo della ricerca pubblica nel sistema americano ed europeo non se la passa bene. Il mercato del lavoro è estremamente precario, quantomeno nella prima decina d’anni di carriera. Successivamente, di solito intorno ai 35-40 anni, si deve passare per un imbuto che fa fuori la maggior parte di chi ha investito in questa carriera e che finisce a fare altro. La competizione per i fondi è tremenda e spesso genera storture, da semplici cattive pratiche alla scelta di linee di ricerca controverse fino alle vere e proprie frodi scientifiche. Infine, quello che credo sia il problema più grave nel mondo accademico, ovvero l’incidenza terrificante di condizioni mentali come depressione e disturbi d’ansia nei ricercatori più giovani. In questo quadro piuttosto preoccupante l’Italia ha paradossalmente una grande opportunità. Quando ci confrontiamo con altri Paesi sviluppati guardiamo sempre ai numeri: fondi, pubblicazioni, citazioni e quant’altro. E giustamente noi ricercatori chiediamo a gran voce di adeguarci a quei numeri. Non è solo una questione di quanto, ma anche di come. Se per un’auto in corsa come il sistema tedesco o quello americano è difficile cambiare direzione, per un’auto che va molto più piano è più facile. E dunque se mai riusciremo ad ottenere un adeguamento del nostro sistema ricerca, avremo davanti l’opportunità storica di pensare un sistema alternativo, che guardi alla qualità più che alla quantità, e coniughi efficienza e rispetto per le persone che lavorano in questo mondo».

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Berlino Schule tedesco a Berlino

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